Da circa un anno lamentavo malessere, stanchezza, ansia, debolezza. Ero stufa di quell’andamento, a tratti invalidante, non ero più io, energica e vitale e questo mi buttava ancora più a terra. Il mio medico, che non è mai stato troppo attento ai miei sintomi li attribuiva ai più svariati mali di stagione o alla stanchezza dovuta alla routine lavorativa e familiare con una bimba piccola, quindi mi prescriveva abitualmente riposo, tachipirina ed esami del sangue, che però non rivelavano nulla di anomalo. All’ennesimo “mi sento male, strana, giù” che ho riferito a mia cugina, medico in Sicilia, mi viene suggerito di fare un’eco alla tiroide, i sintomi le fanno pensare ad un cattivo funzionamento della ghiandola a farfalla. Era ottobre del 2017 e mi reco a fare l’ecografia. Il medico, indimenticabile, non appena inizia il suo lavoro esordisce con un “Uh mamma, è grandissimo!” Io sdraiata, inerme, con l’ansia a mille le chiedo: “Cosa è enorme?” Lei forse si rende conto di essere stata un po’ colorita e per nulla professionale e mi dice che nulla, forse si tratta di infiammazione. Ma di cosa sta parlando? Finita l’eco mi dice che c’è un nodulo, grande, molto grande e che secondo lei dovrei farlo vedere. Esco dall’ospedale incredula, senza averci capito nulla e chiamo subito mia cugina, il mio medico a distanza. Lei non mi butta giù, mi dice che la maggior parte delle persone ha noduli alla tiroide, di stare serena, per quanto possibile, conoscendomi, e mi dice di andare a fare l’ago aspirato, che superata la misura di 1, 50 cm è una prassi obbligatoria. ed il mio era di 3 cm.
Inizia così uno dei periodi più bui della mia vita, in cui si susseguono senza sosta momenti di ansia, paura e pianto, che dovevo trattenere quando vicino a me c’era mia figlia, di soli 3 anni. Il 5 dicembre 2017 vado a fare l’ago aspirato, non un esame simpaticissimo, ma la paura che avevo era di gran lunga peggiore, andava oltre il timore per il dolore di quel giorno. Al medico chiedo se dovrò attendere 15 giorni per l’esito e se secondo lui c’è qualcosa di strano, anomalo, insomma, se secondo lui può trattarsi di un tumore, la mia più grande paura. Lui non si pronuncia, attendiamo l’esito, se non sarò contattata prima dei 15 giorni si tratta solo di un nodulo da valutare.
I giorni passano e anche le notti, anche se a fatica, perché inizio a non dormire più, un periodo di attesa snervante. Continuo a lavorare, faccio finta di niente, tutt’intorno c’è aria di Natale. Ad ogni telefonata che arriva sul mio cellulare vado in panico. I giorni passano, siamo al 20 dicembre e ancora non sono stata contattata, penso di essere fuori pericolo e invece intorno alle 11 del mattino, nel pieno dello scambio dei regali con i colleghi, tra un panettone e un pandoro arriva la chiamata da numero anonimo. “Buongiorno, la signora Valentina? Sono l’endocrinologa, l’esito dell’ago aspirato è positivo, le confermo che ha un tumore". Credo che questa frase la ricorderò per tutta la vita, che spero sia più lunga possibile. Mi trovo al telefono in una stanzetta, isolata, le gambe mi cedono, mi siedo e chiedo cosa devo fare, mi sento come se mi stessi sciogliendo, sola con quel tumore dentro di me. La dottoressa mi tranquillizza dicendo che la soluzione è un’operazione e che posso passare le feste tranquille, il tumore alla tiroide è uno dei più lenti, e che quindi a gennaio con tranquillità, verrò operata. Chiamo mio marito, e inizio a piangere, ho paura, più paura di prima, paura di morire, paura del tumore, paura di lasciare tutto quello che la vita mi ha dato finora. Corro dal mio medico per comunicare l’esito, fare le ricette, impegnative e tutta la burocrazia che c’è in questi casi. Sono incredula, “perché a me?” “cosa ho fatto di male”, “come può succedere”, “io ero felice” sono i pensieri che mi rimbalzano in testa senza sosta.
La parte dura è comunicarlo alla mia famiglia, con cui passare insieme le feste di Natale, il compleanno della mia bambina, il periodo più felice dell’anno. Con loro minimizzo, cerco di dare l’impressione che si tratti di una cosa da niente, ma dentro mi sto consumando, ma sono talmente brava che la parola tumore non esce mai dalla mia bocca al punto che anche mia madre, fin dopo l’operazione non comprende esattamente cosa mi sta succedendo.
I giorni passano, oggi rivedo le foto di quel Natale in cui io e mio marito sorridiamo a mille denti fingendo felicità, ma le occhiaie sono così profonde che ci si può leggere tutta la nostra paura.
Finalmente arriva il giorno dell’operazione, preceduto dai soliti esami di routine, colloqui con medici, chirurgo e anestesista. Ad ogni visita in sala d’attesa mi pare di impazzire, ormai l’ansia la fa da padrona, sempre.
È il 6 febbraio, fa freddo e piove ed io entro in sala operatoria. L’intervento va bene, ho un enorme cerotto sul collo ma inizio a parlare subito. Uno dei rischi correlati a questo tipo di intervento è proprio quello di perdere la voce, che vengano intaccate le corde vocali. Il chirurgo che mi opera è uno dei più bravi, anzi, lo definiscono il migliore e devo dire che effettivamente non posso che confermare cosa si dice sul suo conto. Alle dimissioni mi comunicano che da prassi mi dovrò sottoporre ad un ciclo di radioterapia. La cosa ovviamente non mi esalta, ma l’intervento é andato bene, mi sento più positiva ed affronterò anche il ritiro forzato per la radioiodio.
La radioiodioterapia la faccio a metà aprile all’Istituto dei Tumori di Milano. La prima volta che entro lì, la reazione che è di immensa tristezza, pianto liberatorio accolto con calore dalla capo infermiera, persona che, come tutto il personale dell’istituto dei tumori, porto nel cuore.
Il posto è brutto, e l’idea di stare in isolamento cinque giorni non è piacevole, ma ringrazio di cuore tutte le persone che in quei giorni mi hanno girato intorno, a distanza ovviamente J perché sanno rendere tutto più piacevole, più familiare. All’Istituto dei Tumori, nonostante sia in un bunker, in una stanza singola, senza sapere cosa succede all’esterno se piove o se c’è il sole, non ho mai la reale percezione di essere stata abbandonata. Gli infermieri sono tutti preziosissimi, con le loro battute, le spiegazioni, quattro chiacchiere e qualche abbraccio fanno sì che questi giorni passino quasi senza sentirli.
Non smetterò mai di ringraziarli per quello che hanno fatto per me e per ciò che fanno per tutti i pazienti che quotidianamente passano da quel bunker.
Si torna a casa, 15 giorni senza vedere mia figlia che, dati i miei superpoteri, come definivo la radioattività, è stata in vacanza dai nonni.
Da allora la mia vita è fatta di controlli ogni anno, non senza ansia e apprensione.
Valentina
Comments